Annotazione 19
Non si parla d’altro, se non di ciò che abbiamo visto, e di cosa potesse significare. Elias ha visto la Città Celeste, ma anche per quelli non toccati dalla sua visione le luci sono un chiaro presagio: di guerra, disastro, pestilenza e malattia. Ma per chi? Per Martha l’interpretazione è ovvia. Abbiamo lasciato un paese lacerato da cima a fondo dalla guerra, un paese dove ogni estate la peste minacciava un villaggio dopo l’altro. È abbastanza chiaro.
Per lei.
Non per me.
Mia nonna mi ha insegnato a leggere i presagi e per me i segni non sono molto chiari. Le luci spaziavano per tutto il cielo, da oriente a occidente e da occidente a oriente. Dove si abbatteranno la morte e la distruzione? Sul mondo che abbiamo lasciato o su quello dove siamo diretti?
A Jonah Morse non interessano presagi e visioni. Ha visto molte volte quelle luci nei suoi viaggi. Le chiama Aurora Boreale, Luci del Nord, ben note a viaggiatori e marinai, e agli abitanti delle regioni del Nord, come elemento naturale dei cieli, al pari del sole, della luna e delle stelle.
Non esita a riferire agli altri la sua opinione, e loro ascoltano cortesemente, ma dai loro occhi capisco che non gli credono. Sta perdendo rapidamente gli amici che si è procurato con le sue pozioni. Pensano che il maestro Morse sia troppo intelligente per il suo stesso bene, e non amano essere classificati come sciocchi creduloni.
Sembrava che i discorsi sarebbero andati avanti tutta la notte, ma si sono interrotti all’improvviso. Si è alzato il vento. Le vele sopra di noi sventolavano forte, schioccando come fucili. I passi dei marinai sono risuonati rapidi sul ponte e l’aria si è riempita di ordini urlati. La nave ha virato e abbiamo sentito di nuovo lungo la fiancata il costante sibilo dello scafo che taglia l’acqua. Il maestro Morse ha perso il suo pubblico. Le voci si sono alzate tutto intorno a lui, in ringraziamento per la salvezza. Non siamo forse i Prescelti? Elias Cornwell non ha forse visto la destinazione promessa? Le mani si giungono in conferma. Molti credono che il vento sia proprio l’alito di Dio.
Annotazione 20
Troppo vento è male quanto troppo poco. Il vento aumenta fino a urlare tra le sartie come una cosa viva. Si è rinforzato al di là di qualsiasi benedizione divina. Siamo sollevati da onde alte come montagne e precipitiamo in valli così abissali che sembrano arrivare in fondo all’oceano. L’Annabel sobbalza ogni volta che un’onda gigantesca sbatte contro la prua, scuotendo lo scafo. Acqua gelata scroscia attraverso ogni crepa e fessura. Sopra le nostre teste i piedi dei marinai corrono da un lato all’altro del ponte, ma le loro grida si perdono nel ruggito del vento. La gente si stringe piena di terrore, nell’oscurità, tremando dalla paura che la nave si rovesci da un momento all’altro. Il pavimento si inclina a tal punto che è impossibile camminare, e tutto quello che non è assicurato vola via. Siamo sballottati come il burro nella zangola, alla mercé del mare, impotenti come una foglia nella corrente.
Il mondo intero turbina vorticosamente e non abbiamo modo di sapere come procede la nave o cosa succede sul ponte. Ascoltiamo, cercando di sentire che cosa fanno i marinai, ma i portelli sono sbarrati e le voci sono soffocate dall’urlo del vento, ridotte a grida prive di senso, come quelle dei gabbiani. Nella cabina risuonano gli scricchiolii del legno e i tonfi dell’acqua che sbatte contro lo scafo.
Al culmine della tempesta è caduto un silenzio molto strano. Perfino i bambini e i neonati hanno smesso di piangere. La quiete era rotta solo da qualche preghiera mormorata qua e là, e dai gemiti soffocati di chi sta male. La cabina era assorta nell’ascolto e nell’attesa dell’ultimo schianto e dell’inondazione che avrebbe segnato la nostra fine.
All’improvviso un grido ha strappato il silenzio. Un grido di donna, seguito da un singhiozzo. Poi un intervallo, e poi un altro grido lamentoso, e ancora un altro. Una donna in travaglio. Anche i bambini capivano cos’era.
Rebekah Rivers è venuta verso di noi, agitando le mani, barcollando per tenersi in equilibrio. È la ragazza che mi ha visto per prima, ma non ho mai avuto molte occasioni di stare in sua compagnia. È riservata di natura, ed è stata molto occupata ad aiutare sua madre. La signora Rivers ha sofferto duramente il mal di mare ed è vicina al parto, perciò la cura della famiglia è ricaduta su Rebekah. Si è avvicinata a Martha, tendendole la mano.
«Il bambino sta arrivando in anticipo, signora» ha detto, con la mano sottile che tremava, i grandi occhi nocciola sbarrati dalla paura. «Mia madre ha bisogno di voi. Mio padre chiede se potete venire subito».
«Certo che posso, cara. Prendo solo le mie cose». Martha si è affrettata a raccogliere ciò che le serviva e una volta pronta si è voltata verso Rebekah: «Non preoccuparti. Andrà tutto bene per tua madre».
La ragazza ha gettato un’occhiata al caos intorno a noi. I suoi lineamenti sono gradevoli, quasi da ragazzo, in un viso che oscilla tra la bellezza e la bruttezza.
«Lo spero, Martha». Un sorriso, che fa pendere la bilancia verso la bellezza.
«Ma certo, non temere. Ora ci servono acqua e panni puliti. Vai a chiedere in giro se possono darci qualcosa». Martha si è rivolta a me. «Puoi aiutarla tu»..
Sono andata con Rebekah a chiedere agli altri passeggeri, vicini e amici di darci tutta la biancheria che potevano. L’acqua è troppo preziosa per poter lavare gli indumenti e ogni vestito è stato portato per settimane, ma molti hanno messo da parte qualcosa di pulito per quando lasceremo la nave. Possono anche avere una mentalità ristretta, ma per altri versi sono persone buone e generose. Hanno capito la situazione e hanno partecipato con camicie e sottovesti. Presto ne avevamo più che abbastanza.
«Grazie per il tuo aiuto». Rebekah mi ha guardato da sopra la pila di biancheria che aveva in braccio.
«Ancora non ci siamo». Martha mi ha chiamato presso di sé. «Le mie mani non sono più quelle di una volta, specie con questo freddo umido». Ha sollevato le dita arrossate, con le giunture gonfie. «Dovrai aiutarla tu con il parto».
L’ampia fronte di Rebekah si è aggrottata.
«Tu sei capace?»
«M-mia nonna mi ha insegnato». C’era qualcosa, in questa ragazza alta e seria, che mi faceva arrossire e balbettare. Il suo sguardo diretto pretendeva sincerità, e anche se non stavo dicendo bugie, pure nella mia bocca è suonato così.
«È capace, Rebekah. Puoi fidarti di lei».
«Lo spero».
Lo speravo anch’io. I suoi occhi nocciola erano diventati scuri come agate.
«Faremo il possibile» ha detto Martha, «ma siamo tutti nelle mani di Dio».
«E accettiamo la Sua volontà». Una voce maschile è risuonata dietro di me. «In questa e in tutte le cose. Non è così, Rebekah?»
«Sì, padre» ha risposto Rebekah, ma il suo sguardo non è mutato quando ha chinato la testa. «Vado a prendere l’acqua».
«Mia moglie sta male, signora Everdale» ha detto l’uomo, guardando Martha. «Fate quello che potete per lei». Si rigirava in mano il cappello alto. «Posso assistervi in qualcosa?»
Martha ha scrutato in giro per la cabina. La tempesta infuriava ancora e malgrado fosse giorno, con i portelli chiusi era buio come di notte.
«Avremo bisogno di luce se vogliamo vedere cosa facciamo».
«Vado a prendere le candele».
Facevano poca luce, ma le lampade a olio non sono permesse, sono troppo pericolose quaggiù. E neanche si poteva scaldare l’acqua, non con una tempesta del genere. A bordo di una nave, l’acqua non è l’unico elemento che fa paura.
Si è allontanato in fretta, contento di poter fare qualcosa.
Martha si è guardata intorno. Eravamo circondate da persone da tutti i lati. Ha guardato la sua paziente, distesa supina sulla pedana. Sarah Rivers era magra al di sopra del ventre enorme, col viso grigiastro, già esausta, anche se il travaglio era appena incominciato.
«Mio padre pensa che vi serva un po’ di discrezione».
Tobias veniva verso di noi col passo esperto di un marinaio lungo il ponte che rollava e beccheggiava. Aveva coperte sulle spalle e un martello e un sacchetto di chiodi appesi alla cintura.
«È meglio che ti sbrighi». Martha si è inginocchiata accanto alla signora Rivers, che ora si agitava, il viso contratto dalla successiva ondata di doglie.
«Mary, prendi questa». Tobias mi ha porto una coperta mentre tirava fuori i chiodi.
Mi sono alzata in punta di piedi, ma non ero abbastanza alta.
«Dalla a me» ho sentito due braccia sopra di me. Rebekah ha tenuto la coperta mentre Tobias la inchiodava. Lei è alta quasi quanto lui.
«Grazie, signor…»
«Tobias Morse. Sono felice di dare una mano. Posso assistervi in qualche altro modo?»
«Puoi aiutare a portare l’acqua». Martha si è sporta dalla tenda improvvisata. «Presto, ora» mi ha fatto cenno di avvicinarmi. «Mary, ho bisogno di te».
Rebekah restò accanto a sua madre, bagnandole il viso e tenendole la mano, sussurrando parole di conforto e incoraggiamento. Era un parto difficile, una lunga e dura lotta nella fetida semioscurità della piccola tenda. La tempesta infuriava ancora, ma noi non la sentivamo, concentrate a tenerci in equilibrio mentre lottavamo per far nascere il bambino e salvare la madre. Lei era molto debole, erano settimane che mangiava poco. Il bambino poteva essere sano, visto che tutta la forza della madre era andata a lui, ma non era in una buona posizione.
«Lo vedo. Lo vedo. Forza. Forza. Forza! Eccolo, eccolo! Brava ragazza,
brava».
Martha gridava istruzioni a me e incoraggiamenti alla madre. Insieme portammo il piccolo corpo nel mondo. Lei tagliò il cordone e diede al bambino un colpetto sul sedere. Nessuna reazione.
«Prendi il bambino» mi sussurrò. «Devo badare alla madre, potrebbe dissanguarsi».
Le sue braccia erano scivolose fino ai gomiti e lasciavano impronte di sangue sul corpicino nudo. Un maschio. Grande e perfettamente formato. Non si agitava, non piangeva, stava lì, fermo e inerte tra le mie braccia. Ciocche di capelli scuri gli stavano incollati alla testa. La pelle, sotto il sangue della madre, era grigiastra. Le labbra erano blu e le palpebre chiuse, venate di viola e sottili come pergamena.
Suo padre gli diede un’occhiata e distolse lo sguardo. Alzai gli occhi dal bambino e incrociai quelli di sua sorella che bruciavano nei miei. Teneva la mano inerte di sua madre stretta nella sua. Stava per perdere madre e fratello in una volta. Mi aspettavo di vedere angoscia, dolore, paura in quel viso. Invece vidi rabbia.
Pensai a cosa avrebbe fatto mia nonna in un parto del genere. Aprii la bocca del bambino, la svuotai, succhiai dal naso e sputai. Poi soffiai dolcemente dentro di lui, piccoli sbuffi d’aria. Guardai di nuovo e malgrado lui non si muovesse né piangesse, credetti di vedere la pelle che si tingeva di rosa. Mi voltai verso il punto dove Rebekah e Tobias avevano lasciato il secchio dell’acqua e vi immersi il bambino, gettandogli l’acqua addosso. Sentii che Rebekah tratteneva il respiro: si era precipitata accanto a me, come se io volessi annegare il piccolo.
«Prendi qualcosa per avvolgerlo».
Lo choc dell’immersione aveva fatto il suo lavoro e la pelle da grigia stava diventando rosa. Emise un piccolo grido, più simile a un miagolio di protesta, ma era vivo. Presi un panno ruvido e cominciai a strofinarlo, a massaggiarlo per riportare in lui la vita, poi lo porsi alla sorella.
Lei lo avvolse e lo tenne stretto. Guardò lui per un momento, poi di nuovo me. Mi passò il dito sulla guancia.
«Stai piangendo».
Mi guardai intorno come se mi fossi svegliata in quel momento. Tutti mi stavano fissando. C’era silenzio. I marinai avevano smesso di gridare, e il vento non fischiava più. La tempesta era passata. Tutto era immobile.