Annotazione 6
Il cocchiere mi sollevò come se non pesassi nulla. Era un uomo grosso e curvo, con lunghe braccia penzolanti. Era avvolto in strati di vestiti e portava un grande cappello nero, informe e unto, tirato giù sulla fronte. Mi mise sulla piccola panca al di sopra dei cavalli e si issò accanto a me con sorprendente agilità. I cavalli scalpitavano, impazienti di partire, animali pesanti che pestavano i grandi zoccoli, sbuffando e soffiando, col fiato simile a piume nell’aria. Mi strinsi nel mantello, felice che fosse di lana spessa e di buona qualità, perché faceva freddo.
Il cocchiere annusò l’aria e mormorò: «Stanotte gela, te lo dico io».
Avvolse la sciarpa più stretta, diede di frusta ai cavalli, e uscimmo dal cortile sulla via lastricata.
Presto la strada cittadina finì e le grandi ruote sobbalzarono sullo sterrato che andava verso sud. Parlai poco con il cocchiere, lui ancora meno con me. Mi sentivo piccola accanto a lui, piena di dubbi e di incertezza. Non riuscivo a vedere la fine del viaggio che stavo iniziando.
Devo essermi addormentata, perché quando mi svegliai stavamo attraversando una vasta pianura.
«Ecco le pietre di Merlino, là».
Il cocchiere agitò la frusta in direzione di enormi pietre visibili alla nostra destra, che s’innalzavano dall’erba tagliata bassa. Rimasi a fissarle, incantata. Quello doveva essere il grande Tempio dei Venti, mia nonna me ne aveva parlato. Un cerchio di pietre molto, molto più grandi di qualsiasi altra, lontano verso sud. Posti simili sono sacri per quelli che vivono secondo l’Antica Religione. In alcuni periodi dell’anno mia nonna si recava in un luogo dove c’erano certe pietre, a un giorno di viaggio da casa nostra. Non mi diceva mai cosa succedeva laggiù, o chi altro c’era, e io sapevo che era meglio non chiedere. I riti praticati là erano misteri, gli officianti si conoscevano solo tra loro.
Presto le grandi pietre svanirono. L’oscurità calò da entrambi i lati e restò solo la strada, che si snodava come un nastro bianco al chiaro di luna.
Oltre, solo il buio.
Annotazione 7
Non avevo mai visto il mare, ma ancora prima che il braccio muscoloso del cocchiere mi scuotesse, sentii qualcosa di diverso nell’aria, l’umidità sulle guance e l’odore di salsedine e pesce marcio, e udii le grida dei gabbiani, simili a risate di scherno. Aprii gli occhi nella nebbia chiara, attraverso la quale si vedevano gli alberi e il sartiame delle navi, come rami nudi in inverno. La carrozza caracollò lungo il molo, e tutto intorno si sentiva lo sciacquio del mare, lo scricchiolio del legno e lo strofinio degli scafi l’uno contro l’altro. Mi domandai quale di quelle navi mi avrebbe portato in America.
I puritani si svegliano presto. L’alba era sorta da poco, ma loro già facevano colazione nel salone cavernoso della locanda. Rimasi sulla porta, riluttante, ad ascoltare il mormorio delle voci, l’acciottolio dei piatti, il rumore dei denti che masticavano. Il momento mi gravava addosso. Non appena mi avessero notata, la mia vita sarebbe cambiata completamente. Volevo correre via, ma dove? Il cocchiere era già ripartito per fare altre consegne. Non avevo un posto al mondo dove andare.
I bambini mi videro per primi. Erano buoni e giudiziosi: mangiavano in silenzio, parlavano solo se interrogati, ma i loro occhi erano in costante movimento, pronti a cogliere qualsiasi distrazione. Una fila di piccoli mi guardò, poi si guardarono l’un l’altro. Uno di loro tirò la manica di una ragazza più grande, più grande anche di me, sui diciassette anni, che immaginai essere la sorella. Lei a sua volta sollevò su di me due grandi occhi seri, prima di premersi il tovagliolo sulle labbra e di toccare il braccio dell’uomo seduto accanto a lei.
«Padre…»
L’uomo alzò la testa e mi vide in piedi sulla soglia. Continuò a masticare con cura, poi deglutì e si alzò in piedi. Venne verso di me, un uomo più al-
to della media, con capelli castani che ingrigivano, lunghi fino alle spalle. Giudicai che fosse un agricoltore: la pelle del viso era indurita e scurita dal lavoro all’aperto, aveva rughe attorno agli occhi e il palmo della mano che strinse la mia era calloso.
«Tu devi essere Mary. Benvenuta, figliola. Ti stavamo aspettando».
I suoi occhi si strinsero ancora in un sorriso, e mentre mi guardava vidi che il suo viso, malgrado fosse duro e segnato, era cordiale.
«Grazie, signore» risposi mettendo insieme quello che sapevo di un inchino. «E voi siete?»
«John Rivers». La sua voce era profonda, e le parole venivano fuori lente e strascicate, non come dalle mie parti.
«Allora questa è per voi».
Gli porgi la lettera che mi era stata data. Lui la lesse e annuì prima di riporla nel giustacuore.
«Hai fame? Vieni. Siediti e mangia».
Mi condusse al suo tavolo. I bambini mi fecero posto sulla panca. Sua moglie scodellava porridge da una pentola sul fuoco, muovendosi piano come se le facesse male la schiena. Immaginai che fosse al settimo mese, forse anche oltre, da quel poco che si vedeva sotto i suoi vestiti gonfi. La ragazza che mi aveva visto per prima riempì un boccale di birra e poi si voltò per aiutare la madre. Mi ricordai di mormorare una preghiera di ringraziamento, in parte per il cibo, ma anche per la mia salvezza.
Mentre mangiavo, sentivo sguardi curiosi su di me. Io sbirciavo da dietro le ciglia. Non riuscivo ancora a distinguere una faccia dall’altra, per me erano come i grumi di porridge nel piatto. Stimai che dovevano esserci circa venti famiglie. Gente media, né molto ricca né molto povera, un misto di contadini e mercanti, tutti vestiti con i sobri abiti scuri che distinguono i puritani. Di che tipo, non ne avevo idea. Potevano appartenere a una qualsiasi delle moltissime sette, ognuna con il suo credo. Non potevo rischiare di dire la cosa sbagliata. Avrei dovuto ascoltare attentamente e basarmi su quello che udivo.
Smisero presto di interessarsi a me e tornarono a mangiare e parlare fra loro. Vedevo la tensione sui loro volti, sentivo la preoccupazione nel mormorio delle voci. Avevano sofferto, come chiunque altro nel paese, la loro vita era stata gettata nel caos dalla guerra, dai cattivi raccolti, dai prezzi bassi e dalla scarsità di commerci. Pace e prosperità vanno di pari passo, diceva sempre mia nonna, e il paese non vedeva né l’una né l’altra da troppo tempo. Molta gente si rassegna alla sfortuna, accettandola come
destino, ma costoro erano diversi. Sfiduciati, delusi, incerti sul futuro, l’amarezza era cresciuta in loro fino a spingerli al di là dell’oceano. Ma cosa sarebbe successo dopo? Erano in ansia quanto me. Vedevo le mie paure riflesse tutto intorno.
«Tutta sola, ragazza?»
Mi voltai e vidi una donna che mi sorrideva. Aveva passato la mezz’età, i capelli sotto la cuffia erano striati di grigio, e la sua pelle rugosa come una mela d’inverno, ma i suoi occhi erano lucenti e acuti.
«Sì». Mi sforzai di sorridere, ma quella stanza affollata, quelle famiglie tutte insieme mi facevano sentire più sola che mai. «Mi chiamo Mary».
«Io sono Martha, Martha Everdale». Tese la mano a stringere la mia, come un uomo. Le sue dita erano forti, il palmo indurito dal lavoro come quercia levigata. «Anch’io sono sola. Marito morto e figli pure». Guardò per un attimo in lontananza, nel passato, e poi si volse di nuovo verso di me. Mi esaminò con attenzione, la testa piegata da un lato, come chi sta cercando di decidersi. «Possiamo fare una bella coppia, mi sa. Puoi viaggiare con me».
Quando finimmo la colazione, Martha mi portò di sopra in una grande stanza dove molte famiglie stavano dormendo. C’era a malapena spazio per muoversi tra le loro cose e i letti improvvisati.
«Metti la tua roba con la mia». Si guardò intorno. «Veniamo tutti dallo stesso posto, più o meno. Stessa città, stessa chiesa. Seguiamo il nostro pastore, il reverendo Johnson. Lui e gli altri fedeli che sono partiti anni fa. Dovevamo seguirli subito, ma la guerra ha messo tutto in dubbio. Siamo stati contenti di poter prendere ancora un po’ di tempo, ma ora la volontà è di partire».
«La volontà di chi?»
«Della congregazione. È importante che tutti restiamo insieme, e io vado a cercare le mie sorelle. Mi rimangono solo loro».
«Come farete a trovarle?»
«Confiderò nella guida del Signore». Parlava semplicemente, come se fosse una cosa troppo ovvia per discuterne. «Ora» mi sorrise, «dimmi, Mary, da dove vieni?»
«Warwickshire. Un piccolo villaggio».
«Non hai più nessuno lì?»
Scossi la testa e abbassai gli occhi come per nascondere le lacrime. Stavo attenta a non dire troppo, ma lei non mi chiese della mia famiglia, o come fossi arrivata lì. Mi sollevò il mento e mi guardò in viso. I suoi occhi verdi sembravano vedere chiaro dentro di me. Era come se non avesse bisogno di chiedere; sapeva già.
Scostò un ricciolo dalla mia fronte e lo aggiustò sotto la cuffia. Le sue dita odoravano di ginepro e mi fecero formicolare le guance. Un tocco da guaritrice.
«Sei con un’amica ora. Non avere paura».
Rimasi con lei mentre girava tra gli altri, rendendosi utile, parlando con questo e quest’altro, presentandomi. Mi fece nascondere dietro le sue chiacchiere. Meno raccontavo di me e meglio era. Le bugie non attecchi-scono nella mente come la verità. Per loro ero una parente di Martha, una nipote o qualcosa del genere. Pensassero pure quello che volevano.
Non è insolito che degli orfani vengano portati in America. Non bambini piccoli, ma ragazze e ragazzi vicini all’età matura. La Colonia ha bisogno di braccia muscolose e schiene forti per tagliare la legna e coltivare la terra, e di una buona scorta di mogli e madri per popolare le nuove città. Ci saranno altri come me, che si sono uniti a famiglie cui non appartengono. Mi sembra una posizione scomoda, quasi da servo, ma non proprio. Tutto sommato sono contenta di aver trovato Martha, o piuttosto che lei abbia trovato me.
Quando andiamo in giro osservo le altre ragazze della mia età e il loro comportamento, per essere una perfetta puritana. Rebekah Rivers, la ra-gazza che mi ha visto per prima, è un buon modello, perché è quieta e aiuta la madre. Altre invece non sono così modeste. Ridacchiano tra loro e civettano con i servi, e non aiutano nessuno.
Solo quando è calata la sera sono riuscita a esaminare il baule che mi è stato dato. Non è grande, ma di bella fattura e porta incise le mie iniziali, MN. Il cuore mi batteva forte quando l’ho aperto, chiedendomi cosa avrei trovato. La lettera che speravo di vedere era in cima.
< Mary,
Spero che il baule ti piaccia e che tu faccia buon uso di ciò che contiene. Non serve a nulla augurarsi qualcosa che non poteva essere. Il fato ci ha separate e ci costringe a restare così. Sappi che sei sempre nei miei pensieri, e non sarai sola, anche se ti sembrerà altrimenti, ovunque andrai. Potrei scrivere ancora, riempire pagine e pagine, ma non avrebbe senso.
Non dubitare del mio amore.
Addio e che il Signore sia con te e ti protegga.
E.>
Mi tremavano le mani mentre leggevo. Sono rimasta per un momento a fissare la lettera, come se quelle poche righe potessero svelarmi la donna che non avrei mai conosciuto. Poi l’ho messa da parte. Non piangere sul latte versato, avrebbe detto mia nonna.
Ho esaminato il resto del baule. Ecco cos’ho trovato: vestiti, molti ricambi, biancheria, una pezza di buona stoffa, roba per cucire – aghi, filo, un ditale d’argento. Un coltello nel fodero, un piatto di peltro, un altro coltello, un cucchiaio e una forchetta con cui mangiare. Cose di prima necessità. Poteva averlo preparato una cameriera.
In fondo c’erano inchiostro, una penna d’oca e un blocco di carta, piegato a formare un libro. L’ho afferrato e ho voltato le pagine, sperando di trovare le risposte che pacificassero il mio cuore. L’ho posato, col disappunto che si trasformava in rabbia. Se è uno scherzo, non l’ho capito. Le pagine sono bianche.
Userò la penna e l’inchiostro per cominciare il mio diario. Qui lo scrivono in molti, per registrare l’inizio della loro Grande Avventura. Ho deciso di fare lo stesso. Perché mi sento sola, molto sola, qualsiasi cosa dica lei….