Mago Merlino e Re Artù- parte prima
Re Artù e Merlino, il suo mago protettore, sono due figure fra le più note nel mondo della mitologia. Ma, viene da chiederci, sono esistiti davvero? Oppure sono soltanto personaggi di una fiaba? Se possiamo, tutto sommato, condividere i dubbi su Merlino, un po’ stupisce osservare come molti storici moderni mettano in forse anche la figura di Artù. Una questione, questa, che va ovviamente affrontata prima di procedere oltre. Si parla per la prima volta dei due nel libro intitolato “Storia dei re di Britannia”, scritto attorno al 1135 dal vescovo gallese Goffredo di Monmouth, la cui credibilità può essere messa alla prova fin dal primo capitolo, laddove spiega che la Britannia
sarebbe stata così chiamata dal nome del guerriero Bruto, approdato sull’isola direttamente da Troia in fiamme.
Circa cento pagine dopo, Goffredo cita un re di nome Vortigern un personaggio storico realmente vissuto – intenzionato a innalzare una grande torre sul monte Snowdon, in Galles. Ma ogni volta che un pezzo di costruzione veniva assemblato, immediatamente crollava. Dopo reiterati tentativi, tutti falliti, i suoi consiglieri gli rivelarono che l’unico modo per riuscire nell’impresa consisteva nello spruzzare il basamento della torre col sangue di un bambino senza padre.
All’istante i suoi messaggeri si sparpagliarono in tutto il regno alla ricerca del ragazzo, finché lo trovarono intento a giocare. Nella foga del gioco uno dei suoi compagni lo accusò di essere un demone, perché, come tutti sapevano, non aveva un padre. Quel ragazzo si chiamava Merlino.
Vortigern mandò allora a chiamare lui e la madre, che era la figlia del re del Galles del Sud. La donna, costretta a parlare, rivelò che una notte era stata sedotta nella sua camera da letto da un giovane misterioso che dopo l’amplesso era come svanito nell’aria, anche se a volte le capitava ancora di sentire la sua voce, specie nei momenti in cui era sola.
Era proprio quello che Vortigern desiderava sentirsi dire.
Siccome Merlino era senza padre, il suo sangue avrebbe bagnato le fondamenta della torre, così come indicato dagli indovini reali. Merlino era insorto, si era detto pronto a dimostrare che i consiglieri erano dei mentitori e aveva chiesto di essere condotto al loro cospetto. «Volete sapere perché la torre crolla continuamente?», aveva chiesto loro. Tutti avevano scosso la testa, in silenzio. «Perché sotto terra esiste una caverna colma d’acqua che ne mina le fondamenta».
Vortigern ordinò allora di scavare e di portare alla luce il lago. Ciò fatto, Merlino aveva dato ordine di prosciugarlo fino a che non avessero scoperto due grandi draghi (o serpenti). Quando anche questa previsione si avverò, Vortigern decise di risparmiare la vita al giovane indovino.
Poi Merlino aveva vaticinato alcune profezie, fra cui quella che lo stesso Vortigern sarebbe morto bruciato dentro una torre. Ovviamente, tutto avvenne come predetto, quando un altro re di nome Aurelio Ambrogio – il legittimo erede al trono – aveva invaso la Britannia e incendiato la torre di Vortigern.
Quando Ambrogio venne avvelenato dal fratello, il trono passò a Uther Pendragone. Conquistata la Scozia, Uther aveva invitato tutti i nobili del regno alla celebrazione della sua incoronazione. Fra questi c’era il duca Gorlois di Cornovaglia, accompagnato dalla bellissima moglie, Igerna. Folgorato da Igerna, Uther se ne era innamorato all’istante, costringendo Gorlois a lasciare nottetempo il castello della festa. La fuga improvvisa aveva offeso Uther, che era sceso in guerra contro Gorlois. Per evitare il rapimento della moglie, il duca aveva allora rinchiuso Igerna nell’imprendibile castello di Tintagel, che dominava inaccessibile su di un isolotto unito alla terraferma soltanto da uno stretto braccio di terra, unico accesso al maniero. Venuto a conoscenza di questo, Uther, folle d’amore, era caduto in depressione, perché non riusciva a pensare ad altro che a Igerna.
Il problema venne brillantemente risolto da Merlino, che, ricorrendo alle sue potenti arti magiche, aveva cambiato le sembianze di Uther facendolo assomigliare a Gorlois. Sotto quelle mentite spoglie, Uther era così riuscito a penetrare nel castello e a unirsi con l’ignara regina.
Quella notte era stato concepito un figlio, che sarebbe diventato re Artù. Nel frattempo, mentre Uther era impegnato nel soddisfare la sua smania sessuale, il suo esercito attaccava il castello dove Gorlois si era rifugiato per difendersi. Nello scontro Gorlois era morto e così Uther era stato libero di impalmare Igerna e farne la sua regina.
Dopo quindici anni di regno, anche Uther era stato assassinato e Artù era diventato il nuovo re. Chi ha letto la storia narrata da Goffredo (un testo che ancora oggi viene stampato in edizione economica) si chiederà a questo punto che fine hanno fatto la spada nella roccia, la Tavola Rotonda e tanti altri episodi famosi della saga arturiana.
La risposta è che tutto questo venne aggiunto alla storia solo in un momento successivo da autori e cronisti francesi. La forma definitiva del racconto venne poi data dall’opera di Thomas Malory dal titolo “La morte di Artù”, pubblicata da William Caxton nel 3485. Fino al 1926 non si sapeva granché a proposito di Malory, quando una ricerca letteraria ha rivelato – fra lo stupore degli studiosi – che si trattava di un lestofante, un ladruncolo che saccheggiava monasteri e rubava bestiame e che almeno in due occasioni aveva stuprato una donna di nome Joan Smyth, moglie di un certo Hugh Smyth.
Da quello che è emerso, Malory scrisse il suo capolavoro nella prigione di Negate, dove venne sepolto. Ma se Artù era appena un ragazzo quando suo padre morì, come avrebbe potuto dimostrare il suo diritto regale estraendo la spada dalla roccia (o un’incudine dalla pietra, secondo la versione di Malory?).
Malory supera il problema narrando che sin dal momento della nascita, Artù era stato adottato da Merlino, che lo aveva dato in affidamento a Sir Ector, la cui moglie aveva provveduto a crescerlo sano e forte. Insomma, tutta questa storia suona così assurda che si capisce benissimo come mai molti storici arricciano il naso quando devono esprimersi in merito alla sua autenticità. Uno dei loro punti forti di contestazione è un’altra fonte di informazioni sull’epoca, un monaco di nome San Gilda, autore di un’opera crudele e forte intitolata “De excidio et conquestu Britanniae” nella quale non si cita affatto Artù, sebbene si menzioni la battaglia di monte Badon, la più famosa fra quelle da lui sostenute.
C’è però un’osservazione importante da fare. Un altro cronista, Caradoc di Llancarfan, autore di una biografia di san Gilda, ricorda che Artù uccise Hueil, uno dei fratelli del santo. Un fatto grave che potrebbe farci comprendere come mai Gilda non tenesse affatto a citare Artù nella sua storia.
Allora, in definitiva, che cosa sappiamo veramente in merito al leggendario eroe chiamato Artù? Proviamo a vedere. Per prima cosa non fu un re ma un condottiero, un generale. Non andava in giro su un candido destriero bianco, vestito con una pesante armatura medievale come siamo soliti immaginarlo, semplicemente perché visse un periodo storico molto precedente: nacque attorno al 470 d.C., nel momento in cui i Romani stavano abbandonando definitivamente la Britannia. Egli era, infatti, un romano, forse un cittadino romano. Così il suo cavallo era un piccolo cavallo romano, poco più grande di un pony, e la sua tanto decantata spada un corto e piccolo gladio romano e non la lunga e leggendaria Excalibur.
Attorno al 410 d.C. i Romani avevano deciso di abbandonare la Britannia: avevano necessità di richiamare tutti i contingenti disponibili per fronteggiare i barbari che minacciavano la stessa Roma. Era allora sorto un capo tribù di nome Vortigern che si era proclamato re della Britannia, subito contrastato dai selvaggi Pitti che vivevano a nord, al confine con la Scozia. Per far fronte a queste minacce, nel 433 Vortigern aveva chiamato sull’isola orde di mercenari sassoni affinché si congiungessero con il suo esercito. Così avvenne, ma quando era arrivato il momento di saldare il conto, visto che il re non era in grado di farlo, decisero che si sarebbero pagati da soli conquistando le terre di Britannia.
I locali Britanni – quelle popolazioni che oggi chiamiamo Celti -vennero poco a poco scacciati verso il Galles, la Cornovaglia e la Scozia. Poi era intervenuto un ex comandate romano di nome Ambrogio Aureliano. Sotto la sua guida i Celti si erano compattati e avevano riconquistato le terre perdute, ricacciando gli invasori oltre il mare.
Alla sua morte, il fratello Uther Pendragone, aveva rilevato il trono. Uno dei suoi più brillanti comandanti si chiamava Artorius, il leggendario re Artù, che poteva essere, o meno, figlio di Uther. Fu proprio per merito di Artù che i Sassoni vennero contrastati nel modo più fiero grazie a una serie di grandi battaglie, l’ultima delle quali, lo scontro di Monte Badon, avvenne attorno al 518 d.C.
Queste gesta epiche fecero di lui l’equivalente moderno di un generale Montgomery o di un Eisenhower. Se gli alleati si fossero mantenuti fedeli alla parola data, i Sassoni invasori sarebbero certamente stati ricacciati sul continente e sarebbero stati i Celti discendenti di Artù a governare l’isola, e non gli Anglosassoni. Ma per sua sfortuna, gli alleati incominciarono a litigare disperdendo la loro energia e costringendo Artù a passare gli ultimi anni della sua vita a tentare invano di riconciliare il suo popolo.
Poi anche per lui era venuta l’ultima, decisiva battaglia, quella di Camlann – secondo Goffredo avvenuta nei pressi del fiume Camel in Cornovaglia – ucciso dal nipote Mordred e non dai Sassoni invasori. Sempre secondo Goffredo di Monmouth, il corpo senza vita di Artù venne portato nell’isola di Avalon, da molti identificata con il centro di Glastonbury, all’epoca una piccola città nell’Inghilterra occidentale, nota per una famosa abbazia e per un torrione, una collinetta sormontata da una torre. (Anche se oggi Glastonbury non è un’isola, ci fu un tempo in cui, circondata com’era dalle acque del Canale di Bristol, poteva considerarsi tale).
Poiché il luogo della sepoltura doveva necessariamente restare segreto per impedire che i Sassoni lo profanassero, la fantasia popolare diede corpo alla diffusissima leggenda secondo la quale Artù non era veramente morto, ma semplicemente dormiva in una grotta, pronto a ridestarsi non appena il suo popolo avesse avuto di nuovo bisogno di lui.
Nell’estate del 1113, circa vent’anni prima che Goffredo di Monmouth scrivesse la sua cronaca, un gruppo di preti francesi si presentò a Bodmin, in Cornovaglia, portandosi dietro alcune sacre reliquie. Quando uno dei locali rivelò agli ospiti che Artù non era morto ma stava semplicemente vegliando in un posto sicuro, pronto a intervenire in soccorso della sua gente, l’attendente di uno dei preti si era messo a ridere. L’affronto aveva provocato un violento contrasto di opinioni, fino al punto che un manipolo di uomini armati aveva fatto irruzione nella chiesa con l’intenzione di dare una severa lezione agli sfrontati pellegrini.
La cronaca narra che solo con grande fatica si riuscì a ricomporre il dissidio. L’episodio dimostra come quella di Artù fosse già una figura leggendaria ancora prima che Goffredo desse alle stampe il suo capolavoro. Infatti Artù viene citato numerose volte in alcuni poemi gallesi scritti circa un secolo dopo la sua scomparsa. Ma i riferimenti più importanti ci vengono da un’altra opera, una sorta di confusa collezione di materiale storico compilato da un monaco di nome Nennio, fra l’800 e l’820 d.C. Il riferimento più antico che Nennio menziona a proposito di Artù, sono i cosiddetti Annali pasquali, ovvero le tavole delle ricorrenze della festività di Pasqua (una celebrazione che non cade in una data fissa) compilate dai solerti monaci. Il testo delle tavole offre un ampio margine di tempo. In uno – in corrispondenza dell’anno 518 – si trova una notazione in latino in cui si dice: «La battaglia di Badon nella quale Artù portò sulle spalle per tre giorni e tre notti la croce di Nostro Signore Gesù, grazie alla quale i Britanni uscirono vincitori».
Una seconda postilla, relativa all’anno 539 segnala: «L’eccidio di Camlann nel quale Artù e Modred morirono entrambi». Se diamo credito agli Annali pasquali, dopo Badon, Artù regnò dunque ancora per almeno ventuno anni. Ma l’episodio più drammatico della storia di Artù accadde circa trent’anni anni dopo la morte di Goffredo di Monmouth (avvenuta nel 1154), durante il regno di Enrico II, il sovrano ricordato per la triste vicenda dell’assassinio di Thomas Becket. Enrico era un viaggiatore instancabile. Un giorno, nel corso di una spedizione in Galles, si era imbattuto in un bardo, un “cantore del passato”, il quale gli aveva rivelato che Artù era sepolto nelle cripte dell’abbazia di Glastonbury.
Per proteggere il corpo dalle possibili vendette dei Sassoni, era stata scavata una fossa profonda quasi cinque metri. Il cantore rivelò anche l’esatta collocazione della bara, che si trovava fra “due piramidi”.
Il re ne restò affascinato e contento, perché Goffredo aveva tratteggiato la figura di Artù come quella di un grande generale, il più grande dal tempo di Giulio Cesare. (Secondo Goffredo, Artù aveva conquistato l’Irlanda, la Scandinavia e la Francia e stava marciando verso Roma, quando, raggiunto dalla notizia della ribellione di Mordred, era stato costretto a fare dietrofront e a ritornare in Inghilterra). Enrico era anche felice di sapere che il leggendario eroe era sepolto a Glastonbury.
Come pronipote del grande Guglielmo il Conquistatore, Enrico ben conosceva la leggenda popolare secondo la quale Artù sarebbe tornato in vita qualora la sua patria ne avesse avuto bisogno. Se fosse riuscito a trovarne la tomba e a dimostrare quindi che egli era morto per davvero, i ribelli che continuavano a fare di quella leggenda una sorta di bandiera – come era capitato nel caso di Bodmin – l’avrebbero finita una volta per tutte con quella storia assurda. In aggiunta, Enrico nutriva una particolare predilezione per l’abbazia di Glastonbury, perché l’abate rettore Enrico di Blois aveva fortemente contribuito a sostenere la causa della sua salita al trono.
E così il re si era precipitato all’abbazia per dargli la buona nuova. Stranamente, l’abate non mostrò tutta quella soddisfazione che Enrico immaginava. La sua abbazia, d’altra parte, era già una delle più ricche di tutto il paese e non aveva certo bisogno di altra notorietà per attirare i pellegrini. E poi, “in mezzo a due piramidi” poteva voler dire tutto e nulla.
Ma di colpo, la situazione era precipitata. Il 25 maggio del 1184 l’abbazia era stata devastata da un terribile incendio che l’aveva quasi totalmente distrutta. L’unica consolazione per i poveri frati stava nel salvataggio della preziosa immagine di Nostra Signora di Glastonbury, quasi come se il Signore avesse voluto dare il segno, pur nella rovina, di avere ancora in serbo grandi cose per il bene dell’abbazia. Per re Enrico era venuto il momento di rifarsi sotto. Promosse una colletta e fu il primo dei generosi donatori per la ricostruzione dell’abbazia. Nel 1191 uno dei monaci morì esprimendo il pio desiderio di venire sepolto sotto l’edifico, in mezzo a due croci. Nel predisporre questo tumulo, vennero scoperte due colonne marmoree che in qualche modo avrebbero potuto anche essere descritte come due piccole piramidi. Ai monaci vennero subito in mente le parole cantate dal bardo e già che c’erano, visto che lo scavo era ormai già iniziato decisero di spingerlo fino ai cinque metri indicati come base della tomba di Artù.
Scavando, si imbatterono in una lastra di pietra che non persero tempo a sollevare. Nella sua parte interna scoprirono una croce di piombo che riportava un’iscrizione latina: “Qui giace sepolto il celebre re Artù, nell’isola di Avalon”. Eccitati dal ritrovamento, i monaci continuarono a scavare, probabilmente per molti giorni, al fine non solo di procedere ancora di più in profondità, ma anche per realizzare un buco largo a sufficienza per permettere agli scavatori di muoversi agevolmente. Finalmente, una volta raggiunta la quota indicata, i badili incontrarono qualcosa, che però non era né marmo né pietra, ma legno. Si trattava di un sarcofago enorme, ricavato dal tronco scavato di una quercia. All’interno venne ritrovato il grande scheletro di un uomo, il cui cranio era segnato da profonde ferite.
Un monaco che aveva intravisto una ciocca di capelli biondi e che aveva tentato di sporgersi nel sarcofago per prenderli, se li era visti svanire fra le mani e per l’emozione era caduto dentro con grande spavento. Poi si era trovato anche un secondo scheletro decisamente più minuto, immediatamente attribuito a Ginevra, la sposa di Artù. Un cronista del tempo di nome Giraldo Cambrense, testimone oculare, qualche anno dopo la riesumazione delle ossa e della croce riferisce che nella iscrizione si citava anche la “Regina Wenneverla” (Guinevere, ovvero Ginevra).
Da quel momento in avanti l’abbazia divenne il luogo turistico e di pellegrinaggio più rinomato d’Inghilterra, se non dell’intera Europa. Va da sé che l’abbazia venne ricostruita da cima a fondo in modo ancora più sfarzoso e ricco.
Molti studiosi sono restii a credere a questa storiella e accusano i monaci di Glastonbury di averla inventata di sana pianta, tuttavia la cosa sembra poco plausibile. Giraldo Cambrense pare potersi definire un uomo onesto – è stato il primo a denunciare Goffredo e la sua Historia come un concentrato di fandonie – e sostiene di aver veduto coi propri occhi i due scheletri e la croce di piombo. Quest’ultimo oggetto venne conservato per molti secoli, tanto che nel 1607 William Camden, un illustre antiquario del tempo, ebbe ancora modo di trarne un disegno. Nel testo compare Arturius, antica forma in uso al tempo per indicare re Artù, che però non era mai stata usata fino a quel momento.
Insomma, la confusione esiste. Tuttavia, recenti scavi effettuati nel 1963 da C.A. Radford hanno dimostrato che i monaci non mentivano quando dicevano di essersi spinti nello scavo fin oltre cinque metri. Per di più, come il grande studioso di cose arturiane Geoffrey Ashe ha sottolineato, Glastonbury era anche ritenuta la sede della tomba di Giuseppe di Arimatea, l’uomo che aveva provvisoriamente prestato la sua grotta sepolcrale per ricoverare il corpo di Cristo dopo la crocifissione. Viene allora da chiedersi: come mai se gli zelanti monaci ebbero la buona sorte di rintracciare il sarcofago di Artù non pensarono di riportare alla luce anche quello di Giuseppe? Ma questo è un altro problema. In definitiva, da tutto quello che si è detto, pare certo che re Artù – o il generale Arturius – sia esistito veramente, distinguendosi per la straordinaria bravura nel comandare e nel combattere. Questo, ovviamente, non risponde a tutti gli interrogativi, che continuano a essere molti, anche se la ricerca sta, piano piano, provando a risolverli uno dopo l’altro. Per esempio, sono molti gli studiosi che si dicono finalmente sicuri di aver identificato la collocazione geografica della mitica Camelot, la meravigliosa corte di Artù. Nel 1542 uno scrittore di nome John Leland annotava che una certa collina fortificata di South Cadbury, nel Somerset, era in realtà da riconoscere come «Camallate, un tempo famosa città o castello… re Artù trascorreva molto tempo a Camallate». Nel 1966 si iniziò a scavare al castello di Cadbury. Sopra le rovine romane spiccavano altri importanti resti di edifici certamente in uso nel periodo arturiano da parte di qualche comandante di notevole autorità e potere. A questo punto anche l’apparentemente assurda storia sulla rocca di Tintagel narrata da Goffredo di Monmouth incomincia ad assumere un tono di maggiore credibilità.
Il castello di Tintagel venne costruito nel 1140, vale a dire quando Goffredo scrisse la sua Historia. Secondo gli storici, al tempo di Artù in questa zona esisteva solo un antico monastero celtico. Nel 1924 il “visionario” Rudolf Steiner nel corso di una visita a Tintagel, fece una lettura spiritica del luogo identificando alcune postazioni come, per esempio, la Tavola Rotonda, il dormitorio dei cavalieri e così via. Tutto sembrava una mera invenzione. Ma nella calda estate del 1983 un furioso incendio bruciò completamente tutta la vegetazione della piccola isola. Sono così venute alla luce le fondamenta di non meno di un centinaio di piccole costruzioni rettangolari e di un edificio, composto da una sola grande stanza, lungo circa 25 m. Più in basso, ai piedi della collina, è emerso un piccolo porticciolo naturale e un po’ ovunque nel territorio dell’isola sono venuti alla luce resti di ceramiche attribuibili a anfore e giare, ad indicare come olio e vino fossero materia di primo e forte consumo largamente importata. (La quantità di residui di tal genere trovati in questo sito archeologico superano da soli tutti gli altri mai rintracciati nel resto delle isole britanniche). Dall’altro capo dell’isolotto, di fronte a antichi tumuli sepolcrali celtico cristiani, è venuta alla luce una roccia con un’impronta ben modellata sopra. Era usanza del tempo che i condottieri e i sovrani lasciassero questi segni del loro potere, per indicare il loro predominio sul territorio che dovevano difendere. (In questo caso, anche il silente e severo sguardo degli antichi antenati avrebbe contribuito all’impresa).
Tutto questo induce a vedere in Tintagel la fortezza di un grande capo, qualcosa di ben di più di un semplice monastero. Pertanto, sostenere l’ipotesi che al tempo di re Artù fosse disabitata è alquanto azzardato. Insomma, mettendo insieme tante diverse testimonianze, la realtà storica di Artù e delle sue imprese diventa poco alla volta sempre più accettabile.
Su questa scia, nel suo libro “Arthur: Roman Britain’s Last Champion”, l’autore Beram Saklatvala è arrivato a sostenere che anche per confermare la realtà di Excalibur e del Santo Graal le prove disponibili sono già moltissime. La parola latina che indica pietra è saxo, vocabolo molto vicino a Sassoni. Se in alcune antiche cronache si legge di un certo Artù che trae una spada da un sassone – un qualche guerriero da lui incontrato e ucciso – ecco che, per un normale e quasi spontaneo gioco di parole e di equivoci, la leggenda si trasforma nella storia della spada nella roccia.
Goffredo di Monmouth afferma che la spada di Artù era detta “Caliburn”. Caliburn è una combinazione che nasce da due parole che significano ambedue “fiume”: la celtica “cale” e la sassone “burn”. Una spada ovviamente necessita di essere temprata in acqua fredda e se la parola anglosassone cale significa “freddo”, caliburn potrebbe tradursi come “corrente gelida”. In questa chiave, la spada di Artù potrebbe aver ricevuto il suo nome dal fiume nelle cui acque gelide essa venne temprata, ossia nel Cale, che scorre nei pressi di Sturminster, nel Dorset.
In merito al Graal – la sacra coppa che si dice sia stata usata da Gesù nel corso dell’Ultima Cena e nella quale si racconta che Giuseppe di Arimatea raccogliesse gocce del suo sangue e da lui stesso in seguito condotta a Glastonbury – si tratta forse di un oggetto dalle dimensioni più grandi, una specie di bacinella per abluzioni ritualistiche, piuttosto che una coppa vera e propria.