Il viaggio della strega bambina- viaggio 1
Viaggio 1
Annotazione 4 (marzo 1659)
La carrozza cambiò andatura e mi svegliai. Dovevo essermi addormentata, vinta dalla stanchezza e cullata dal dondolio della vettura. Mi destai di soprassalto al suono degli zoccoli dei cavalli sul lastricato. Fuori stava facendo buio. Giudicai che doveva essere tardo pomeriggio, anche se il cielo era oscurato da alti edifici. Il cocchiere chiamò e i cavalli nitrirono in risposta, mentre la carrozza svoltava in un ampio cortile.
«Dove siamo?»
La mia compagna non disse nulla, si limitò a sorridere dietro il velo portandosi il dito guantato alle labbra. La carrozza si era fermata. Tirai indietro la tendina di cuoio per sbirciare fuori. Il cocchiere aprì la portiera per la mia compagna. Arrivò gente di corsa: uno stalliere per i cavalli, il locandiere che s’inchinò e sua moglie che fece la riverenza. Sgranarono un po’ gli occhi quando la mia compagna si voltò per aiutarmi a scendere, ma non dissero nulla. Sembrava che fossimo attese. Inciampai quasi: avevo le gambe irrigidite e la testa che ancora ondeggiava per il moto della carrozza. La mano sulla mia strinse la presa e non mi lasciò.
Fummo introdotte in una stanza spaziosa, parte camera da letto e parte salotto; ovviamente era la migliore della locanda. La locandiera portò da mangiare e da bere: piatti di peltro colmi di stufato di carne, montone a giudicare dall’odore, pane bianco e formaggio, un boccale di birra per me e vino per la mia compagna. La donna posò il cibo, chinò la testa e se ne andò.
La mia compagna mangiò poco; sollevò appena il velo per sorseggiare il vino, sbriciolò un po’ di pane tra le dita guantate e allargò lo stufato sul piatto. Forse il cibo era troppo rozzo per i suoi gusti. Sentivo i suoi occhi su di me, adesso ero io l’oggetto del suo studio, ma non alzai lo sguardo finché tutto il cibo non fu finito e l’ultima traccia di sugo raccolta con il pane, perché malgrado lei mi stesse scrutando e malgrado tutto quello che mi era successo, avevo una gran fame.
«Sei sazia?» Le sue dita sottili tamburellavano sul tavolo.
Annuii.
«Questa stanza è di tuo gradimento?»
Annuii di nuovo.
«Bene». Si alzò. «Ora devo lasciarti, ho molto da fare. Annie, la locandiera, si prenderà cura di te. Con lei sarai al sicuro, non temere».
Con questo se ne andò. Fuori dalla stanza la sentii parlare con la locandiera, e ordinare per me un bagno, che prontamente arrivò. Una grande vasca completa di biancheria, seguita dalle cameriere che portavano brocche di acqua bollente. Non avevo mai visto una cosa simile prima, figuriamoci poi entrarci dentro. A casa (al pensiero mi bruciarono gli occhi) facevamo il bagno nel fiume, quando lo facevamo. Appena fu tutto pronto arrivò la locandiera, e mi ordinò di svestirmi.
«Anche quella» disse, quando rimasi in camicia.
Una cameriera raccolse i miei vestiti e li portò via.
«Dove li porta?»
«Li brucia».
«E io che cosa mi metto?»
«Fino a domani, questa». Aveva sul braccio una lunga camicia di lino bianco.
Rimasi in piedi davanti a lei, nuda. Mi portai le mani al collo. Portavo un piccolo sacchetto di cuoio, fatto per me da mia nonna. Conteneva cose, cose speciali che nessuno doveva vedere. Il sangue mi salì alle guance. Temetti di essere perduta.
«Con me sei al sicuro» disse lei piano, come se sapesse chi ero e da cosa ero fuggita. «Mettilo da parte ed entra nella vasca».
Annie era una donna alta e grossa, con piccoli occhi neri come mirtilli in una torta rotonda. Si arrotolò le maniche, svelando avambracci che sembravano prosciutti, mi afferrò con una presa da boscaiolo e cominciò a strigliarmi. Non avevo mai pensato di essere particolarmente sporca, se non altro a confronto con la maggior parte dei compaesani, ma ci vollero due cambi d’acqua per far contenta Annie. I capelli furono la parte più difficile. Erano arruffati e annodati, e il pettine si impigliava tanto che Annie doveva strapparli via. Poi mi ci spalmò sopra un composto dall’odore pungente.
«Corteccia di ontano nero cotta nell’aceto» disse quando le chiesi spiegazioni. «Hai più pidocchi del cane di un mendicante».
Lo lasciò in posa mentre mi strofinava il resto del corpo con pezzi di sapone duro e sacchetti di erbe dolci. Poi tornò all’attacco della mia testa con un pettine fitto, per togliere tutti i pidocchi e le uova. Mi sembrò che quasi tutti i capelli se ne andassero con loro e che il cranio sanguinasse prima che Annie fosse soddisfatta. Rimasi seduta nella vasca fino a quando l’acqua si raffreddò e cominciai a tremare. Finalmente lei mi permise di uscire e mi strofinò tutta in un lenzuolo di lino grezzo, finché non tornai colorita e calda.
«Ecco» disse, tenendomi a distanza di braccio, con la faccia rossa e sudata. Mi divise i capelli ed esaminò la testa, poi mi scrutò da capo a piedi prima di sentenziare «Credo che vada bene». Mi aiutò a mettermi la camicia da notte. «A letto, tu. Ti porterò una zuppa di latte». La sua faccia cordiale si distese in un sorriso. «Sei piuttosto carina sotto tutto quel sudiciume». All’improvviso mi abbracciò. «Povera piccolina. Che ne sarà di te?»
La vasca fu portata via, l’acqua svuotata in una fossa nel cortile e io rimasi sola. Presi la candela e andai allo specchio annerito e scheggiato che stava in cima a un’alta cassettiera. La schiuma e le parole gentili mi avevano fatto venire le lacrime agli occhi, che mi guardavano dallo specchio, arrossati, con le iridi cerchiate di nero, di un grigio luminoso screziato di giallo, in un viso bianco e rosa molto più chiaro di prima. I miei capelli ricadevano in folte ciocche color cenere, mentre le punte asciutte erano di un oro opaco, come le foglie di quercia in inverno. Il viso che incorniciavano era pieno di ombre e segni insoliti. Forse era colpa della luce tremolante della candela, ma mi sembrava di guardare il viso di un’altra, di una sconosciuta. Il viso di una donna, non di una bambina.
Un colpo alla porta mi fece sbarrare gli occhi come quelli di un cervo. Era la cameriera con la zuppa: pane inzuppato nel latte bollente e generosamente annaffiato di brandy, miele e spezie. Mescolai con il cucchiaio di corno e mangiai lentamente, lasciando che mi scaldasse. Rimasi rincantucciata su una sedia di fronte al camino finché i ciocchi si ridussero a brace rossa. Solo allora andai a letto.
Non ero mai stata in un letto come quello, prima. Conoscevo soltanto la piccola pedana nella nostra casetta fumosa, le rozze coperte tessute in casa e il pagliericcio. Questo letto era riscaldato da un braciere pieno di carbone, ma non serviva. Mi mancava il corpo caldo di mia nonna accanto al mio. Lei era tutto quello che conoscevo e che mi era caro. Io l’amavo e lei amava me. Ora ero sola al mondo. Cosa avrei fatto senza di lei? Nella mia mente risuonavano le parole della locandiera: che ne sarebbe stato di me? Affondai il viso nel cuscino di piume e strinsi forte le coperte di lana e le lenzuola bianche e morbide. Me le tirai sulla testa, per soffocare i sin-ghiozzi.
Annotazione 5
Non vidi la donna che mi aveva portato lì fino alla sera successiva. Nel frattempo Annie badò a me, mi dette da mangiare e mi portò vestiti nuovi: camicia, gonna, corsetto e giacca, e una cuffia per coprire i capelli. Stoffa buona, non raffinata, ma migliore del materiale grezzo cui ero abituata. Colori scuri, semplici. Tristi. Puritani. Avrei dovuto immaginare la mia sorte.
La mia finestra dava sul cortile. Voltai la sedia e mi sedetti a guardare fuori, con indosso i miei vestiti nuovi. Mi era stato detto di restare nella mia stanza, perciò non avevo altro passatempo. Mentre cominciava a far buio vidi la sua carrozza svoltare nel cortile. Lei scese, ma disse al cocchiere di aspettare. Arrivò uno stalliere a dar da mangiare e da bere ai cavalli, ma non li sciolse dai finimenti. Pensai che allora dovevamo andare via insieme.
«Proprio una piccola Puritana» disse lei, entrando. «Fatti vedere». Venne verso di me. «Almeno lo sembri. Andrai bene».
«Sembro cosa?»
La guardai, paragonando i miei semplici vestiti con il suo ricco abbigliamento. Improvvisamente capii che non sarei andata con lei.
Sedette su una sedia di fronte a me. «Viviamo in tempi difficili. Cromwell, il Lord Protettore, è morto. Suo figlio non governerà ancora a lungo. Carlo tornerà dall’esilio e avremo di nuovo un re. La gente già lo reclama e sono in corso infiniti complotti per riportarlo qui. Chi sa cosa succederà dopo?»
La guardai attraverso il velo, cercando di capire dal suo viso cosa c’entrasse questo con me.
«Ci sono persone che non vogliono restare qui, in questo paese. Puritani, separatisti, persone che temono che la loro fede non sarà più tollerata. Partono in cerca di una nuova vita. In America».
Puritani. Separatisti. Abbassai gli occhi per guardarmi.
«Devo andare con loro?»
Lei annuì.
«America!»
Se mi avesse detto che dovevo partire per il regno delle fate non sarei stata più attonita. In effetti, quello mi sembrava più reale: l’avevo visitato spesso grazie alle storie di mia nonna. Ma un mondo nuovo al di là dell’oceano? Ne avevo sentito parlare. Sapevo che esisteva un posto simile, ma non avevo mai pensato di visitarlo e non riuscivo neanche a immaginare come potesse essere.
«Sì, America. Salperanno presto. Partirai da qui per raggiungerli a Southampton».
«Perché?»
«Non sei al sicuro qui. Mio marito era soldato nell’esercito di Cromwell, qualcuno tra quegli uomini era ai suoi ordini. Sono brava gente, avranno cura di te».
«Cosa devo raccontare di me? Chi sono io?» Mi morsi il labbro. Avrebbero fatto domande, e i puritani non amano le streghe. Mi sembrava un piano pericoloso.
«Tu sei Mary Newbury, un’orfana. Tuo padre era un soldato di Cromwell, morto nella battaglia di Worcester. Tua madre è morta di malattia, e tua nonna era troppo debole per allevarti».
«Da dove vengo?»
«Tua madre era sempre in viaggio finché non si è ammalata. Tua nonna viveva in un piccolo villaggio, quattro case appena fuori Warwick. Vicino a dove viveva realmente, ma non troppo vicino. Sei rimasta poco tempo con tua nonna. Questa è la storia che racconterai, anche se dubito che faranno molte domande. Stanno abbandonando il paese e hanno i loro pensieri. Devi mescolarti a loro senza farti notare troppo. Ti darò una lettera di presentazione. Dalla a John Rivers insieme ai soldi per il viaggio».
«Ma perché devo andare con loro? Perché non posso stare con voi?»
Scosse la testa. «Questo è impossibile».
«Perché?»
«Io stessa sono in pericolo».
Non le credetti. A me sembrava intoccabile.
«È vero, te lo assicuro. Mio marito ha firmato la condanna a morte del vecchio re. Tutti quelli che hanno firmato saranno arrestati non appena il nuovo re tornerà». Sospirò, e poi parlò di nuovo, con voce bassa e amara. «È come se avesse firmato la propria».
Non sapevo cosa dire. Suo marito doveva essere un uomo molto importante per essere coinvolto in simili affari di stato. Questo aumentava il mio rispetto per lei, ma non era per quello che ero rimasta in silenzio. Mia nonna non era una Realista, durante la guerra era stata dalla parte del Parlamento, ma considerava l’assassinio di un re consacrato come un peccato mortale. Essere sposata con uno che aveva quel sangue sulle mani mi avrebbe riempito di orrore.
«Se è così… perché non andate voi in America al mio posto?»
Scosse di nuovo la testa. «Non posso. Mio marito non partirebbe mai, per lui sarebbe da vigliacchi, e io devo restare al suo fianco. Comunque, non sarebbe al sicuro nemmeno laggiù. Non lo sarà mai quando Carlo ritornerà sul trono. È quasi ora di andare» aggiunse, passando bruscamente a questioni pratiche. «Raccogli le tue cose».
Mi guardai intorno, smarrita. Tutto quello che possedevo l’avevo indosso. Lei sembrò rendersene conto.
«Il tuo baule è già caricato. Ho cercato di prevedere le tue necessità». Mi porse un borsellino. «Qui c’è il denaro per il viaggio e per qualsiasi cosa tu voglia comprare. Ci sono delinquenti ovunque, perciò tienilo stretto e sorveglialo. John Rivers e i suoi sono in una locanda di Southampton e aspettano di salpare. Il cocchiere sa dov’è e ti porterà lì. Dai questa a Rivers appena arrivi».
Mi porse la lettera e si voltò bruscamente, come per andarsene.
«Aspettate! Aspettate, signora!» L’afferrai per la manica. «Ci sono alcune cose che devo sapere».
«Sì?»
Il suo tono manteneva una fredda formalità. Le domande mi morirono in gola, ma non la lasciai andare. Non prima di sapere.
«Perché?» dissi finalmente. «Perché io?»
«Sono in grande debito con Alice Nuttall, la donna che chiami tua nonna. Era la mia nutrice. Da bambina avevo un grande affetto per lei, le ero vicina come lo sei tu. Come lo eri tu» si corresse. «In seguito mi aiutò in un momento di difficoltà, quando nessun altro avrebbe potuto. Mi rese un grande favore e ora è il momento di ricambiarlo. Negli anni ho cercato di aiutarla, di assicurarmi che stesse bene».
Come faceva Alice Nuttall a vivere così bene senza un uomo che la mantenesse? Questo aveva sempre suscitato molti sospetti.
«Ma mio marito è un soldato e un politico, e per seguirlo sono partita. Sono tornata appena ho saputo della sua disgrazia, ma era tardi, troppo tardi per evitare…» Si fermò un istante per ricomporsi. «L’unico modo in cui posso ripagarla ora è attraverso di te. Adesso svelta, non c’è tempo da perdere».
Venne verso di me e sollevò il velo. Mi prese tra le braccia e mi strinse nel più breve degli abbracci. Sapeva di fiori. Per un momento aspirai il dolce e persistente profumo delle rose, poi mi lasciò.
«Ecco. Prendi questo come pegno e talismano».
Si tolse un anello dal dito. Una pietra viola, piatta, con l’iniziale E incisa al centro. Le mie dita le si chiusero attorno. L’oro era pesante.
La guardai negli occhi, e occhi uguali ai miei ricambiarono lo sguardo: la stessa particolare sfumatura di grigio pallido, screziata di giallo e cerchiata di nero. Ora conoscevo la natura del debito che le pesava sulla coscienza da quattordici anni. Stavo guardando negli occhi mia madre e sapevo che non l’avrei mai più rivista…