Streghe al rogo
Caterina la strega, dalle pozioni al rogo.
Quando la accusarono non oppose resistenza: era lei stessa convinta di essere una strega. Ecco la sua storia
Tra il 1617 e il 1618 fu processata e condannata, con l’accusa di stregoneria, Caterina de’ Medici. All’epoca Caterina aveva già passato i quarant’anni e guardandosi alle spalle non poteva certo dire di aver avuto una vita facile: in giovane età, infatti, era stata violentata e poi costretta a prostituirsi. Da quando, comunque, era stata assunta come cameriera in casa del senatore Luigi Melzi, la sua vita travagliata sembrava avviarsi verso un miglioramento. Purtroppo, però, il Melzi da tempo soffriva di una grave malattia che i medici non riuscivano a curare e, forse per scaricare su altri la colpa della loro inettitudine, accusarono Caterina di aver fatto ammalare il suo padrone con un maleficio.
Per capire come questo fosse possibile è necessario dare uno sguardo alla professione medica di allora, che languiva tra formule dottrinali, scongiuri e preghiere. I medici visitavano i pazienti solo in compagnia di un prete e non prestavano cure a chi non era battezzato o confessato; inoltre non toccavano mai un malato, il cui corpo era considerato cosa impura, e, nei pochi casi di intervento, lasciavano l’onore dell’incisione a un barbiere. Durante il parto, poi, usavano coprire le donne con un lenzuolo per una questione di pudore (l’uso del forcipe spettava al solito barbiere). I medici erano spesso impotenti di fronte alla malattia e, dopo essersi limitati ad analizzare feci e urine, il loro responso era sempre lo stesso: maleficio.
All’opposto le «streghe», le guaritrici, erano a conoscenza di rimedi naturali per ogni tipo di problema. Preparavano analgesici, calmanti, sonniferi, digestivi, anticoncezionali; dal fiore di sambuco ricavavano una sorta di aspirina vegetale; con l’argilla curavano i denti, con la camomilla gli occhi; usavano biancospino per il cuore, lavanda per i polmoni, la propoli per la pelle e così via. Le streghe, con le loro conoscenze tramandate oralmente di madre in figlia, guarivano tutto il corpo senza dimenticare l’importanza della psiche, sapevano, infatti, che affetto e delicatezza nella cura del malato erano indispensabili. Furono anche le prime ad avere nozioni precise di anatomia, tanto che riuscivano a ridurre lussazioni e a sistemare e immobilizzare anche le peggiori fratture. Ovviamente erano ottime levatrici che facevano partorire in quasi totale assenza di dolore.
Per questo ogni donna che avesse osato curare gli altri, mostrando disprezzo verso la professione medica, veniva definita strega e perseguitata. Non doveva essere un caso il fatto che durante i processi, accanto all’inquisitore, sedeva sempre un medico che aveva il compito di sovrintendere ai supplizi da infierire. In questo modo i medici si sarebbero impadroniti del sapere delle streghe per meglio svolgere la loro professione. La maggior parte della gente, però, continuava a rivolgersi alle guaritrici, poiché le parcelle dei dottori restavano incredibilmente alte e quindi alla portata dei soli ricchi.
Caterina fu accusata dai familiari del Melzi, certi della correttezza del responso dei medici. Come si usava allora, un’anonima mano si recò in chiesa dove, in una cassetta simile a quella delle elemosina, imbucò un biglietto che accusava formalmente Caterina: era il sistema di delazione detto judicio, che tanta parte aveva fatto nel lavoro inquisitorio di quegli anni. La situazione era aggravata dal fatto che Caterina era realmente convinta di essere una strega. In passato era stata iniziata alle pratiche magiche ed erboristiche e, nel mondo numinoso, aveva trovato una fuga da quello reale che con lei era stato tanto duro. Durante il processo Caterina mostrò una notevole conoscenza degli stereotipi dei sabba e delle attività tipiche di una strega. Non si sa cosa successe di preciso in quei giorni di tormenti, ma è possibile ricostruire a grandi linee l’accaduto, basandosi sulla prassi che solitamente si seguiva per i casi di stregoneria.
Per essere sicuri che Caterina non nascondesse altro, venne scortata in una stanza buia, forse un sotterraneo, dove le uniche luci presenti erano quelle della candela e del baluginio dei bracieri. Non era possibile dire se fosse giorno o notte e il trascorrere delle ore era scandito solo da una clessidra. Per eliminare ogni resistenza Caterina venne bendata: il momento della tortura era arrivato. Erano presenti il giudice che conduceva l’interrogatorio, il cancelliere che redigeva il verbale e il medico che doveva occuparsi dell’imputata. I supplizi erano inflitti da un carnefice con il volto coperto da una maschera di cuoio.
Uno dei principali indizi di appartenenza al mondo delle streghe era un segno che le donne dovevano portare come un marchio lasciato dal demonio (spesso bastava un punto rosso, un porro, un neo o qualunque altra imperfezione cutanea). Per meglio ricercare questi segni la sospettata veniva denudata e completamente rasata; il suo corpo veniva esaminato in ogni minima piega e orifizio (compresi i genitali e la parte sotto le palpebre). In realtà questa pratica era necessaria ad umiliare l’imputata, che in molti casi veniva stuprata dagli stessi inquisitori, in modo da abbattere qualunque forma di orgoglio e reticenza. Il passo successivo consisteva nel pungere il corpo con lunghi spilloni appositamente concepiti alla ricerca di punti insensibili al dolore, che potevano essere un altro segno lasciato dal Diavolo.
Poi toccava agli strumenti di tortura veri e propri: l’ariete, la sedia della strega, la frusta, la gogna, la corda, il cavalletto, la capra, il torchio, lo strizzaseni; la tortura dell’acqua o quella del sale, lo schiacciapollici o la ruota, il toro o la morsa. In queste condizioni Caterina confessò tutto quello che le dissero di confessare. La sentenza era già pronta: morte. Dato che l’esecuzione era di competenza dello Stato, Caterina venne presa in consegna, mentre falegnami e operai si occupavano della preparazione del palco per il rogo. Non sappiamo come Caterina fu portata sul luogo dell’esecuzione, piazza Vetra; di solito si procedeva in due modi: la prigioniera veniva condotta al rogo sopra un carro con in testa una mitra con scritte le sue colpe, oppure in groppa ad un asino, seduta alla rovescia, a seno nudo, frustata dal boia. In entrambi i casi la folla seguiva il corteo per sbeffeggiare la colpevole e acclamare gli inquisitori.
Al momento dell’esecuzione, dopo la lettura delle colpe del condannato, il funzionario inquisitore incaricato ricordava i versetti del Quarto Vangelo: «Se uno non dimora in me, venga buttato come un ramo che si secca, e questi rami vengano raccolti e bruciati». Era il momento dell’accensione del rogo. Se il boia si dimostrava clemente poteva strangolare il condannato prima che le fiamme lo lambissero, altrimenti la morte avveniva tra urla strazianti. Se anche una strega avvolta dalle fiamme avesse urlato il suo pentimento e invocato il perdono del Signore, non sarebbe stata liberata, perché, per legge, il pentimento doveva avvenire prima della lettura della condanna.
di Francesca Belotti e Gian Luca Margheriti